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C’è spazio per un raddoppio e più. “Il mercato dei deal immobiliari italiani ha un ampio margine di crescita potenziale, pari a oltre due volte la taglia attuale. Abbiamo accuratamente calcolato che il mercato italiano degli investible assets vale il 4% del totale mondiale, a fronte di un volume di transazioni che non supera l’1,5%”. A spiegarlo è Olivier de Poulpiquet, Chief executive officer e Chief investment officer di Morgan Stanley, colosso mondiale degli investimenti immobiliari. Dalla sede di Singapore (“o meglio, vivendo in aereo”, precisa), Olivier de Poulpiquet gestisce 32 miliardi di dollari di asset in tutto il mondo, coordinando un team di circa 200 persone sparse in 17 uffici del globo.

Secondo le vostre stime, dunque, il volume delle transazioni relative agli immobili adatti agli investitori può più che raddoppiare in Italia?
Sì, esattamente. E l’Italia ha un patrimonio immobiliare potenzialmente molto buono. Ma anche alcune importanti lacune su cui occorre lavorare, se ci si vuole posizionare ai livelli dei mercati di real estate più importanti.
Quali sono i fattori che oggi mantengono il mercato italiano a un livello molto più basso rispetto alle sue potenzialità?
Innanzitutto il mercato italiano soffre di una preoccupante mancanza di prodotto per gli investitori, sia nazionali che internazionali. Ma sono proprio gli operatori esteri a sentire maggiormente questa lacuna, perché potendosi dirigere in qualsiasi Paese non possono fare a meno di paragonare i diversi mercati.
A cosa è dovuta questa mancanza di prodotto immobiliare?
A tre cause principali: la prima è da imputare all’atteggiamento delle banche italiane nei confronti dei crediti immobiliari incagliati; la seconda al pessimo stato di manutenzione degli immobili, anche di pregio; la terza, alla difficoltà di portare avanti progetti di sviluppo in tempi e condizioni certi, il che ha frenato l’afflusso di prodotto immobiliare di grado A verso il mercato.
Partiamo dai crediti incagliati, vale a dire il settore degli Npl (non performing loan) relativi a immobili. Recentemente Cerved ha stimato che nei prossimi 4 anni verranno collocati sul mercato 25-30 miliardi di euro di immobili da Npl, di cui l’80% è non residenziale. È a questo che si riferisce?
La questione dei portafogli immobiliari sottostanti i crediti incagliati delle banche italiane è piuttosto nota, ma purtroppo anche vecchia. Mentre negli altri Paesi gli istituti di credito hanno già da tempo attuato dei processi di ricapitalizzazione, svalutato i portafogli da Npl e poi messo sul mercato tali immobili con il dovuto sconto, questo in Italia è un processo che è appena iniziato. Si tratta dunque di un ritardo importante su un segmento di mercato molto ampio, che di fatto blocca le dimensioni del real estate italiano. Le banche italiane devono decisamente accelerare su questo fronte.
Quanto allo stato di manutenzione invece?
Il patrimonio immobiliare italiano, soprattutto se guardiamo a quello storico e artistico, nelle location centrali delle principali città e, soprattutto, a Milano e Roma è molto bello e difficilmente replicabile. Purtroppo però lo stato di manutenzione di tali edifici lascia molto a desiderare. In molte altre parti del mondo, per esempio, su tipologie di building di questo livello esiste l’obbligo di rifare, perlomeno, le facciate. Una delle opportunità che vediamo nel mercato italiano è la possibilità di riposizionare immobili storici in immobili di classe A, creando valore attraverso l’attivià di asset management e attraverso gli investimenti per la riqualificazione.
Poi c’è la questione dello sviluppo…
Sì, anche questa nota. Ma vorrei invece soffermarmi su un altro problema, che non riguarda la mancanza di prodotto, ma la mancanza di certezze per gli investitori esteri, che invece devono poter fare affidamento sulle valutazioni in base alle quali decidono di investire. M riferisco in particolare all’incertezza normativa, che cambia le regole a gioco già iniziato, e all’incertezza fiscale, che è una vera e propria bomba sempre pronta a esplodere. Un investitore estero, prima di fare un’operazione, si rivolge ai migliori studi legali, i quali fanno tutte le verifiche del caso e, sulla base di queste, si costruisce o meno il deal. Purtroppo però, in molti casi, dopo due o tre anni arriva una diversa interpretazione fiscale, con relativa multa multimilionaria da pagare: è ovvio che questo cambia completamente il profilo del deal e la sua redditività. È capitato anche a noi. Ma la cosa peggiore è che, la volta successiva, il team internazionale non si vuole più arrischiare a fare un’operazione in Italia. Speriamo che con il nuovo “interpello” fiscale presentato al Mipim di Cannes dall’Agenzia delle Entrate questo fattore di rischio venga ridimensionato.
Ma lei crede nell’Italia?
Assolutamente sì e abbiamo molta fiducia nel Paese e nelle sue opportunità. Sotto molti aspetti l’Italia è migliorata tantissimo, penso al livello di trasparenza e alla quantità e qualità dei veicoli di investimento oggi a disposizione, dai fondi immobiliari alle Siiq. Per noi, per esempio, non è un mercato da “mordi e fuggi”, ma con un orizzonte di lungo periodo. In particolare, poi, pensiamo che Milano abbia delle ottime chance di candidarsi come alternativa a Londra nel post-Brexit e di mettersi al livello di Francoforte o Parigi: ma l’opportunità è adesso, non fra dieci anni. È quella che si dice una chance “once in a lifetime”, una carta che la città deve sapersi giocare subito. E anche qui le banche italiane dovrebbero farsi un esame di coscienza: perché non sono competitive, nel real estate, non dico sulle operazioni estere, ma nemmeno su quelle italiane? È una mancanza pesante, questa, e vediamo le migliori operazioni fatte in Italia senza la presenza di istituti di crediti nazionali.

 

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